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SCRITTI DI VIAGGIO

LA TERRA DEI VULCANI
Testo di Claudio Kerschbaumer


Per spiegare la genesi delle montagne si è adoperato di tutto. C'è chi parlava dell'ira di un Dio sconosciuto, oppure chi riteneva che la catena montuosa fosse la spina dorsale della terra. Camminando fra i vulcani dell'Ecuador l'ipotesi annotata da qualcuno all'inizio del 1600, che l'innalzamento delle montagne fosse provocato dai vulcani, sembrerebbe la più azzeccata.
La prima cosa che salta agli occhi del viaggiatore sono i coni perfetti dei vulcani che spuntano, sparsi qua e là, su di un altipiano verdeggiante. Una visione inconsueta, non un ammasso di cime, pinnacoli, ghiacciai, ma delle montagne distaccate una dall'altra come volessero mostrare la loro bellezza a 360 gradi. Fiere, imponenti, belle da guardare. In questa terra incontriamo i vulcani attivi più alti al mondo. L'esploratore e scienziato tedesco Alexander von Humbold, nei primi tentativi di ascensione ai maestosi vulcani Cotopaxi e Chimborazo, battezzò questi luoghi il "viale dei vulcani". Una dorsale di cime oltre i 4.000 metri che racchiude la personalità schiva e alle volte ribelle di un popolo obbligato a combattere per una sopravvivenza ostinata. Sopravvivenza basata sul magro raccolto di campi posti a quote troppo ostili, dove per un bambino il gioco e la scuola si traducono nel duro lavoro nelle coltivazioni. Qui la natura, cioè la terra, è al centro dell'esistenza, vista come un grande e fertile seno materno che mette a disposizione l'essenziale per vivere. La terra suddivisa in tante piccole parcelle viene lavorata a mano e in alcuni casi con l'aiuto dei buoi. Così la grandezza della parcella è più o meno l'estensione che il contadino con la sua famiglia riesce a coltivare. La terra si lavora in distinte epoche dell'anno, ad esempio le patate si seminano in maggio, le cipolle in gennaio e il mais alla fine dell'anno. Il risultato è un paesaggio artificiale simile ad un collage variopinto, inconsueto a noi Europei. Il rapporto della gente della sierra con l'ambiente è in perfetta simbiosi, perfino le case dislocate qua e là lontane fra loro rispecchiano l'andamento delle grandi montagne.
Un paese ricco di vita come l'Ecuador ingloba una biodiversità costiera, andina e amazzonica unica, un'esplosione di contrasti difficili da trovare in altre parti del mondo. Una differenza riscontrabile anche nelle diverse caratteristiche socio culturali: dalla frenetica vita della costa, dove l'investimento cementifero è attualità, si passa alla vita più pacata dell'alta sierra, dove lo scorrere del tempo viene scandito dal punto in cui si trova il sole, per finire alla vita tranquilla della selva amazzonica. L'Ecuador possiede poco più di 3 milioni di ettari di terra, dove esiste una natura lussureggiante con ben 3.800 specie di vertebrati tra cui 1.550 specie di uccelli dai mille colori, e una varietà di 25.000 specie botaniche. Circa l'11,7 % sono adibiti a riserve naturali. In questo paese adagiato sulla linea dell'equatore non esistono grosse differenze fra estate e inverno: la stagione invernale, caratterizzata dal periodo delle piogge, che si abbattono più o meno regolarmente, copre i mesi da dicembre a maggio; il così chiamato periodo estivo invece esplode nella sua secchezza durante i mesi di luglio e agosto, ed è il periodo più arido dell'anno.
Nei terrazzamenti agricoli all'ombra dei grandi vulcani, ancora oggi, si odono antichi canti di indios, che invocano gratitudine alla montagna amica per non aver fatto scendere sul grano la lava incandescente, o per aver attirato tutta la neve sui propri ghiacciai. Purtroppo questi canti non sempre vengono accolti dai vulcani, scatenando la fuoriuscita di tonnellate di cenere e lava. E' quello che è capitato alla fine del 1999 al Tungurahua, un vulcano di 5.023 metri a poche centinaia di chilometri dalla capitale, Quito. Per la piccola cittadina di Banos è stato un duro colpo, in quanto basa gran parte della sua economia sul turismo. Un turismo a cui viene offerta una particolare attrattiva naturalistica, il "Mama Tungurahua", come viene chiamato dagli abitanti del luogo. Per Juan, un campesino proprietario di qualche mulo e un cavallo, è un problema serio: per colpa dell'eruzione non ci sono turisti con borse e zaini da portare sul vulcano. "Nel periodo di grande affluenza turistica riuscivo a fare anche due viaggi al giorno" racconta con voce malinconica. Ora la giornata, la passa a guardare "Mama Tungurahua" pregandola che smetta di eruttare e dia nuovamente la possibilità di portare i turisti sulla sua cima, per ammirarne la bellezza. Ma come Juan anche gli agricoltori si trovano a dover desistere di fronte alla forza della natura. E' questa la terra dei vulcani: intrigante, armoniosa, bella da innamorarsi. Terra da scoprire senza fretta, accettando i mille contrattempi di una società messa con le spalle al muro da un'inflazione galoppante, che crea qualche problema in più da aggiungere a quelli già esistenti.



IL CAMMINO DEL CONDOR

L'Ecuador offre una moltitudine di possibilità per gli amanti del trekking, potendo usufruire di un territorio vasto e vario. Come gli antichi viaggiatori che per primi camminarono tra i sentieri che si diramano da un conoide all'altro dei grandi vulcani, oggi si possono ancora trovare e provare le stesse emozioni, i profumi di un tempo che ci è sfuggito di mano, una cultura che sfida il tempo inarrestabile e che emoziona il viaggiatore. I tavolati stepposi dei 4.000 metri infondono un piacevole senso di solitudine rotto, ogni tanto, dal galoppo frettoloso di un branco di cavalli selvaggi, belli e liberi nel loro habitat.
Fra molte possibilità, chi scrive, ha scelto e percorso assieme a tre amici, un itinerario poco conosciuto, ma sicuramente fra i più armoniosi e stupendi di quelli offerti da questa regione: il Cammino del Condor.
Questo sentiero venne usato fin dai tempi degli Inca, per spostarsi dalla zona del vulcano Cotopaxi, dove osserviamo ancora qualche rovina a testimonianza della loro civiltà, verso le acque termali di Papallacta. Ora viene sfruttato dagli indios che pascolano le greggi dei grandi allevatori.
Giunti a Quito in un ingorgo di traffico e gas di scarico, sbrighiamo frettolosamente tutte le compere di viveri, benzina per i fornelli e quant'altro, per dedicarci alla visita dell'antica città inca. Situata a 2.817 metri di quota nel cuore delle Ande è, dopo La Paz in Bolivia, la capitale costruita alla quota più elevata. Quito con i suoi quasi 2.000.000 di abitanti su di una superficie di 13.253,30 km2., è anche la capitale della provincia di Pichincha. Conquistata dagli Incas nel 1470, fu eretta a capitale di un loro regno, che durò fino al 1534 quando gli Incas dovettero cedere alle forze di Sebastiàn de Belalcàzar. Divenne indipendente dopo la battaglia di Pichincha, nella quale il generale Sucre sconfisse gli Spagnoli.
Tre profondi burroni solcano e dividono la cittadina, creando così una insidiosa morfologia. La parte vecchia, la più attraente ma la più pericolosa per noi turisti, indossa l'aspetto della città coloniale spagnola, con architetture barocche. Tra le costruzioni più interessanti, da visitare se non altro perché è la più antica, vi è il convento di San Francesco iniziato nel 1534. La chiesa del convento è riccamente decorata all'interno da stucchi policromi in stile barocco. Tra gli edifici civili spicca sicuramente il palazzo settecentesco del Governo. Purtroppo palazzi di nuova concezione disegnati da qualche eccentrico architetto e inseriti con noncuranza fra gli stupendi palazzi coloniali, provocano un brutto colpo allo stomaco. E, come in molte città sud americane, il pittoresco disordine dei quartieri indios, dove il caos la fa da padrone, crea il contorno un po' triste di questa città comunque bella ed accattivante.
Da Quito si percorre la strada numero 23, che verso oriente porta a valicare un passo a 4.100 metri di quota, per poi scendere verso Papallacta, luogo di cura termale. Il trekking del Condor inizia nei pressi di una casa, se così si può chiamare, in località Tambo. E' questo il punto di eventuale incontro con le guide locali e i cavalli adibiti a trasporto materiale.
Caricato parte del materiale sulle schiene dei cavalli, il resto lo carichiamo sulla nostra: la mia, quella di Sandra, di Lorenza e di Remo. Con il cappello bianco dalle grandi falde e gli stivali per il fango sembra un perfetto colonizzatore spagnolo.
Un cartello, molto evidente, indica la partenza del trekking; la quota calcolata dal Casio da polso è di 3.560 metri.
Una particolarità di questo trekking è quella di dover effettuare parte del tragitto calzando gli stivali di gomma, in questa maniera si evita di inzuppare di fango i piedi e le scarpe da trekking. La cosa all'inizio può essere poco apprezzata, ma con l'andare dei chilometri, ci si fa l'abitudine ed è vivamente consigliata.
Come si abbandona la statale si respira immediatamente e profondamente una totale tranquillità, si gode di una rilassatezza profusa dal silenzio rotto soltanto dai nostri passi; una pace che ti entra dentro e ti accompagna nel lento cammino. Ma la cosa che più si percepisce è di sentirsi più naturali, leggeri, liberi di un peso dato dalla frenetica quotidianità.
Pablo, un profondo conoscitore di queste valli, le uniche che conosce da quando è nato, ci accompagna assieme a due cavalli talmente scarni da sembrare sull'orlo del crollo fisico. Il sentiero sale leggermente fra ciuffi di erba alta; ogni tanto si oltrepassa una piccola zona di pantano. L'ambiente verde, le valli ampie, dove i cavalli selvatici partono al galoppo nel vederci. Saliamo fino ad un crinale, il punto più alto della giornata, 3.890 metri, per poi scendere nel mezzo di una radura dove cespugli di "lancetilla" gialli, un fiore molto comune da queste parti, si mescolano con le bianche margherite. Mentre il passo si fa più sicuro, per via della discesa, Pablo ci indica la "Laguna Vulcan", un lago adagiato nel fondovalle in un ambiente da fiaba. Quindi ideale per trascorrere la prima notte del trekking. Il posto a prima vista regala una visione di quiete e distensione, ma come ci si guarda attorno si intravedono fiumi di lava neri, solidi e inerti che scendono diritti dalla bocca del Vulcano Potreilios. Visione che da la giusta dimensione della forza della natura e di quanto siamo impotenti di fronte ad essa. Proprio grazie allo sbarramento prodotto dalla lava solidificata, scesa dal vulcano, si è formato questo nuovo lago plasmando un ambiente recente a 3.550 metri di quota.
La notte da queste parti arriva di buonora e non resta altro da fare che infilarsi nei caldi sacchiletto. La mattina partiamo presto, dopo un'abbondante colazione a base di fiocchi d'avena e un buon caffè, attraversiamo il rio che alimenta il lago e incominciamo la lenta e costante salita. E' sicuramente la parte più impegnativa di tutto il trekking. A tratti il cammino si fa piano, dando la possibilità all'escursionista di prendere fiato e guardarsi attorno sorseggiando un po’ d'acqua, preziosa a queste quote.
Nel momento in cui si giunge sul crinale dove i ciuffi d'erba alta contrastano lo sfondo, un bianco accecante, formato da neve e ghiaccio, si affaccia alla nostra vista. La cima dell'Antizana con i suoi 5.758 metri è la quarta vetta dell'Ecuador e come tutte le montagne del paese, s'innalza solitaria catturando lo sguardo. Si possono scrutare i suoi fianchi ghiacciati, leggere le linee di rottura dove si formano i crepacci. In Ecuador il limite delle nevi eterne si aggira sui 5.000 metri di quota. Antizana è una parola di origine Quichua , Anti significa montagna e sana minerale.
Questa cima fu salita per la prima volta il 9 marzo 1880 da Edward Whymper e l'italiano Carrel. E' una montagna schiva alla quale non sempre si riesce a calpestare la cima, a causa dei crepacci molto grandi e dei ponti di neve, che crollano in continuazione. Ad un buon numero di scalatori non resta altro che rientrare al campo base. Vicino ad uno dei suoi fianchi e più precisamente a quello meridionale, si affaccia ai nostri occhi un piccolo lago dai colori vivaci. Le acque calme della laguna Santa Lucia riflettono la sagoma dell'Antizana ad una quota di 4.250 metri. In questo luogo incantevole si conosce una fauna ricchissima: puma, cavalli selvatici, pernici, una grande varietà di uccelli acquatici, condor, lepri e colibrì dai colori sgargianti. L'ambiente adatto per montare le tende e passare la seconda notte del trekking.
Una fredda folata d'aria annuncia il nuovo giorno. Una famigliola di germani si rincorrono nelle limpide acque dello specchio lacustre; i primi raggi di sole illuminano la sommità dell'Antizana. I cavalli sono già carichi, la giornata si preannuncia tranquilla senza la minaccia di impegnativi dislivelli. Per alcune ore il tracciato scende nell'ampia vallata costellata di cime sconosciute alla topografia moderna, ma ben presenti agli abitanti di questi luoghi. Più si avanza per il cammino e più si fa arioso, superbo e desolato. L'itinerario conduce all'incrocio di tre ampie vallate, il luogo è chiamato deserto per via di alcune aree dove il vento ha posato della sabbia nera, fina e vulcanica. Ad un certo punto il sentiero vero e proprio non esiste, si sposta a mezza costa e aggirata un'ampia dorsale si perde in un enorme vallata nei pressi del lago Mica. Camminare nella piana della valle è qualcosa di unico. L'emozione ti prende a tal punto da perdere la parola. Ti sembra di essere un pioniere alla scoperta di valli solitarie, dove tutto è nuovo e vergine. Come ci sediamo fra l'erba alta per guardarci attorno intontiti, piomba sopra di noi il padrone indiscusso di questi luoghi. Il condor incomincia a volteggiare come volesse mostrare tutta la sua bellezza e maestosità e farci capire chi è il Re della Madre Sierra. Poi per incanto come è apparso sopra di noi, così sparisce nella vastità dell'orizzonte.
Dopo due giorni visitiamo il passo Sincholagua nella parte occidentale dell'omonimo vulcano, una zona davvero unica, dove il vocabolario non trova parole per descriverlo. Di fronte, in tutta la sua geometricità il perfetto cono del Cotopaxi. Questo cono regolare di ghiaccio e lava subisce la sua prima ascensione nel novembre del 1872 ad opera dei tedeschi Wilhelm Reiss e Alfons Stuebel. Turisti di tutte le nazionalità affrontano oggi il Cotopaxi. Infatti si tratta di un'impresa che non presenta grandi difficoltà tecniche. La struttura geologica della montagna, la fauna e la flora sono di una particolarità unica.
La montagna e la zona circostante vennero dichiarate Parco Nazionale l'11 agosto 1975.
Una lunga discesa porta su di un comodo ponte, per superare con tranquillità il Rio Pita. Qui nei pressi di una casa in rovina termina il trekking del Condor.
La sera stessa siamo al rifugio Josè Rivas a 4.800 metri di quota, in mezzo a tedeschi, francesi, inglesi, in un miscuglio di razze e idiomi tutti pronti a partire la notte stessa per la cima del vulcano attivo più alto al mondo.
L'EPOPEA DEL KLONDIKE


Circa un secolo fa, le sconfinate foreste del bacino dello Yukon furono teatro forse dell'ultima grande epopea di massa dell'era moderna. Un avvenimento che riversò in quelle terre ancora spopolate centinaia di migliaia di persone, fece sorgere dal nulla e scomparire con altrettanta velocità intere città, creò da un giorno all'altro fortune miliardarie e da un giorno all'altro le distrusse. Una storia fatta di mille storie, ognuna delle quali potrebbe essere la trama di un intero romanzo. " La corsa all'oro" del Klondike.

LO SCENARIO
Il luogo è l'estremo Nord-Ovest del continente americano, e in particolare l'alto corso dello Yukon, il fiume che lo attraversa per più di 3000 chilometri, dalle Montagne Rocciose alle acque gelide del golfo di Beaufort. Un mare di colline digradanti verso un orizzonte azzurro che sembra preannunciare il brivido dei ghiaccio dei mari artici. Una raggiera di valli, gole e calanchi, laghi e fiumi e mille torrenti, paludi e torbiere ovunque ristagni l'acqua del disgelo. E' il regno dell'alce, del caribù e del wapiti, dell'orso e del lupo, del castoro e del salmone e delle tribù indigene che da secoli organizzano la loro vita su un sapiente sfruttamento di queste risorse. L'epoca, gli anni del passaggio nel XX secolo, quando i ritmi lenti del cavallo e della canoa devono ormai lasciare il posto alla ferrovia, al telegrafo, ai battelli a vapore. Formalmente, queste terre appartengono alla corona inglese; ma i confini sono ancora labili e a ovest, lungo la striscia costiera dell'Alaska, c'è la presenza un po’ inquietante degli Stati Uniti, che non vanno tanto peri il sottile quando si tratta di annettersi territori vergini. Per il momento, comunque, la "civiltà occidentale" è rappresentata da pochi cacciatori di pellicce, da qualche commerciante che gestisce sperduti posti di scambio e da un pugno di cercatori di minerali: rame, carbone, argento; e perché no, oro.
L'oro infatti era già stato trovato, nel bacino dello Yukon: lungo il fiume Stewart e il Forty Miles, e poi nel Big e nel Little Salmon, e nel Birch Creek. Ogni nuova scoperta era quella eccezionale e svuotava gli accampamenti precedenti, ma nessuna si era in realtà mai propagata al di fuori della cerchia dei cercatori di mestiere: una specie di casta, qualche centinaio di individui sempre in moto da una valle all'altra, cercando in proprio o per conto di un lontano finanziatore, ma in realtà più attratti dal fascino di un'esistenza precaria e solitaria che da una concreta volontà di diventare ricchi. Finche non esplose la febbre del Klondike.

LA SCOPERTA
Fino al 16 agosto del 1896, George Washington Carmak era stato quasi un reietto, un marginale perfino in una società ai margini come la piccola comunità bianca sparsa nelle solitudini dello Yukon. Era nato in California, Figlio di un cercatore approdato là nella "corsa all'oro" del 1849; a sedici anni se ne era andato di casa, a lavorare sui ferry-boat e poi come lavapiatti su una nave militare; e un mattini, davanti a Juneau, nell'Alaska meridionale, si era gettato in acqua e aveva raggiunto la riva a nuoto, scomparendo nella foresta dietro il miraggio dell'oro del Grande Nord. Presto però Carmack aveva scoperto che in quelle terre c'era qualcosa che lo attirava di più del metallo: gli indiani e la loro vita. Aveva imparato le lingue delle tribù, aveva sposato la figlia di un capo, e ora batteva i boschi con la moglie e i cognati, cacciando, pescando salmoni e tagliando legna da vendere ai cacciatori. In un mondo in cui gli Indiani venivano eliminati o abbruttiti per essere utilizzati nei lavori più infamanti, la sua scelta ne aveva fatto una specie di bastardo culturale, appena tollerato dagli altri bianchi, che lo chiamavano con disprezzo Siwash George (Siwash era il nome di una tribù). Lui non se ne curava; era felice così, e forse con gli anni sarebbe diventato un capotribù.
Ma un altro destino lo aspettava alla confluenza del Klondike con lo Yukon. Klondike in realtà era una storpiatura del nome indigeno Thron-diuk, "l'acqua con i pali"; perché il fiume era considerato uno dei più ricchi di salmone e da generazioni gli indiani avevano impiantato i pali cui fissare le reti da pesca. Carmack stava appunto facendo essiccare il salmone quando un uomo che risaliva il fiume in canoa si fermò a scambiare due chiacchiere con lui. Quell'uomo si chiamava Henderson ed era un altro personaggio fuori del comune, una specie di mistico della ricerca mineraria. Figlio di un guardiano di faro della Nova Scotia, a quattordici anni si era imbarcato per l'emisfero Sud. Per 5 anni aveva cercato l'oro in Australia e in Nuova Zelanda, poi era tornato in America e per quattordici anni aveva setacciato i fiumi del Colorado, poi era risalito più a nord e per quattro anni aveva frugato nei affluenti dello Yukon; ma senza mai appagare la sua fame. Sfiduciato aveva ormai deciso di rinunciare quando incontrò Joseph Ladue, che gestiva il spaccio di Ogilvie, alla confluenza del Sixty Miles con lo Yukon. Anche Ladue aveva cercato oro per anni, e ne aveva pure trovato; poi aveva deciso che il modo migliore sia quello di lasciare la fatica agli altri, e prendersi una parte del risultato in cambio dei viveri e degli utensili di cui non potevano comunque farne a meno. Ma aveva un'idea fissa: nell'Indian River, pochi chilometri più a valle, doveva esserci oro a palate. Così propose a Henderson di fare società: lui avrebbe messo viveri e attrezzatura, l'altro avrebbe cercato. Henderrson, naturalmente, non ci mise molto a farsi convincere. Per scoprire se nei sedimenti fluviali c'era il prezioso metallo, il sistema era uno solo. Raccogliere una palata di terra e di ghiaia e metterla nel gold pan, il piatto leggermente concavo che, fatto ruotare abilmente nell'acqua del torrente, alla fine conservava sul fondo, grazie alla combinazione della forza centrifuga e quella di gravità, le particelle d'oro, più pesanti. Cercare voleva dire quindi risalire i corsi d'acqua fermandosi ogni tanto a fare una prova. In caso di successo, il cercatore poteva riservarsi il diritto esclusivo di ricerca su un tratto di torrente lungo 500 piedi (152 metri) e largo da spartiacque a spartiacque (chiamato claim), debitamente registrato presso l'ufficio governativo a ciò deputato; allo scopritore di un nuovo campo aurifero si concedeva la possibilità di rivendicare un secondo claim per "diritto di scoperta".
Nella sua sistematica esplorazione Henderson trovò più volte oro sul fondo del suo pan; ma non abbastanza per soddisfarlo. Finchè non oltrepassò il crinale che separava l'Indian River dal Klondike. Lì finalmente, su un torrente senza nome che lui battezzò Gold Bottom Creek, "il ruscello lastricato d'oro", e che poi si rivelò un tributario del Klondike, trovò tanto metallo prezioso da convincerlo di essere finito su un giacimento davvero importante.
Ora Henderson stava tornando da Ogilvie, dove aveva fatto provviste di viveri e aveva coscienziosamente informato gli altri della sua scoperta ( era la legge non scritta del cercatore, che Henderson non avrebbe violato per nulla al mondo), e naturalmente lo disse anche a Carmack. Ma quando Siwash George si decise, qualche giorno dopo, a raggiungere Henderson sul Gold Bottom, accompagnato dai cognati Skookum Jim e Tagish Charlie, non si fermò lì ma continuò oltre il crinale, discendendo un altro torrente, il Rabbit Creek. Nel tardo pomeriggio del 16 agosto, i tre fecero la scoperta del secolo: più di mezzo dollaro d'oro a ogni vagliata.
Questa è una delle pagine più controverse dell'intera storia del Klondike; in seguito Skookum Jim disse infatti che era stato lui il primo a trovare l'oro, ma che il cognato lo aveva convinto che, in quanto a indiano, la scoperta non gli sarebbe mai stata conosciuta. Inoltre Henderson affermò che era stato lui a suggerire a Carmack di cercare sull'altro versante, mentre Siwash George sosteneva che la sua era stata una decisione autonoma. Fatto sta che dopo la scoperta, mentre glia altri cercatori debitamente informati accorrevano da tutta la regione a ritagliarsi le loro concessioni, il povero Henderson che si trovava appena al di là del crinale fu lasciato all'oscuro, e quando seppe non c'era più un solo metro di terreno libero.

LA FEBBRE
Il giacimento del Klondike e dei sui affluenti si rivelò uno dei più ricchi nella storia della ricerca dell'oro. Nel corso dell'estate, tutto il terreno libero fu picchettato e l'oro accessibile raccolto. Poi l'inverno, il gelo che impediva di scavare e di usare l'acqua, bloccò tutto, e milionari effettivi e aspiranti tali rimasero bloccati. Anche la notizia non si diffuse molto al di fuori dello Yukon; ma il governo di Ottawa si affrettò a prendere provvedimenti. Il timore era che gli Stati Uniti sfruttassero il richiamo dell'oro per ritoccare a forza i confini. Non sarebbe stata la prima volta: nel 1874, era stata la scoperta dell'oro sulle Black Hills del Dakota a scatenare la guerra finale contro i Sioux, nonostante quelle colline fossero state solennemente riconosciute come loro territorio sacro e inviolabile. Così lo Yukon fu staccato dal North Western Territory per dargli un'amministrazione autonoma, il contingente della polizia a cavallo, le mitiche "giubbe rosse", fu rinforzato e soprattutto fu creato un posto di guardia fisso al Chilkoot Pass, la principale via di comunicazione da sud con l'Alaska .
Appena in tempo.
Il 15 luglio del 1897 una nave, l'Excelsior, attraccò a San Francisco, e due giorni dopo arrivo a Sattle il Portalnd. Entrambi arrivavano da St. Michael, un piccolo porto del mare di Bering alla foce dello Yukon, e avevano a bordo i primi milionari del Klondike, partiti appena il disgelo aveva reso praticabile il fiume. Essi portavano con sé i loro tesori, polvere d'oro per quasi un milione di dollari stivata in sacchi, borse da sella, tabacchiere, scatole da biscotti e vasetti di marmellata. I giornali non parlavano d'altro, il telegrafo trasmetteva la notizia in ogni angolo del mondo. Nel giro di pochi giorni, si scatenò quello che gli inglesi chiamano la stampede, usando lo stesso termine che designa il galoppo della mandria impazzita: un'onda di piena di umanità decisa a giocarsi la propria fetta di fortuna nei campi auriferi del lontano Nord. Almeno centomila persone si misero in cammino per un viaggio di oltre 350 chilometri di terre desolate e inospitali, portando con sé, a spalle, su slitte, sui carri, in canoa, su precarie zattere, almeno una tonnellata fra viveri e equipaggiamento.
Fu una strana epopea, perché si stava entrando nel XX secolo e la tecnologia metteva a disposizione nuovi strumenti. In due anni fu costruita una ferrovia che valicava le montagne, sul Chilkoot Pass venne realizzata a tempo di record una teleferica, più a valle entrò in funzione un tram a cavalli per evitare le pericolose rapidi del Miles Canyon. Nei soli mesi di luglio e agosto del 1898, 57 battelli a vapore attraccarono alle banchine di Dawson City, carichi dei prodotti più insoliti. La maggior parte dei partecipanti alla grande corsa non aveva certo i mezzi per pagarsi queste facilitazioni; ma dovettero comunque acquistare viveri e attrezzatura ai prezzi più esosi (le giubbe rosse che controllavano il confine lasciavano passare chi avesse il necessario per sopravvivere un anno), assoldare i portatori o affittare gli animali da soma per il trasporto, costruire o farsi costruire barche o zattere. Scalarono le Montagne Rocciose, o addirittura cercarono di superare gli immensi ghiacciai che sboccavano sulla costa dell'Alaska. Affrontarono laghi tempestosi e rapidi che inghiottivano barche e zattere nei loro vortici. E tutto per arrivare a destinazione quando il banchetto era ormai finito. I torrenti erano stati completamente lottizzati, l'oro accessibile con i mezzi individuali era stato grattato via. Restava una realtà di una città sorta dal nulla alla confluenza dello Yukon e del Klondike: Dawson City, da zero a 30.000 abitanti nel giro di due anni, dove un etto di sale veniva venduto per 50 dollari, un chili di chiodi costava 56 e le uova fresche potevano essere pagate 18 dollari la dozzina (per avere un elemento di raffronto, l'oro veniva pagato mezzo dollaro al grammo!).
Di quei 100.000 mila che si misero in viaggio, non più di 30-40.000 arrivarono a destinazione, forse 4.000 si misero effettivamente a cercare l'oro, al massimo qualche centinaio ne trovò abbastanza da potersi dire ricco e non più che un paio di decine seppero conservarlo. La gran parte dell'oro del Klondike finì nelle tasche dei mercanti, nelle casse dei saloon o dei bordelli, o sperperato in folli eccessi di esibizionismo.
Nel 1899, l'epopea del Klondike era già finita. Dawson scese a poche centinaia di abitanti, solo pochi irriducibili continuarono a cercare l'oro sui torrenti; gli altri vendettero le concessioni alle grandi compagnie, che avevano i capitali e i mezzi per scavare in profondità. La pala e il piccone, il vaglio del cercatore lasciavano il posto alle draghe e ai bulldozer.

L'ORO OGGI
Eppure si cerca ancora l'oro su questi torrenti. Al di là dei cartelli che invitano i turisti a cercare l'oro alla vecchia maniera (costo 5 dollari, l'affare resta comunque conveniente per chi lo propone finchè nel vaglio fa trovare pagliuzze per un costo inferiore…), vi sono ancora cercatori che prendono in concessione un claim e lo lavorano. John Gould è uno di questi.




AFRICA
di Claudio Kerschbaumer

Il nome Africa riporta sempre allo stesso pensiero: vastità di territori, tormentate savane, pianure votate alla siccità e alla desolazione, vita dura a contatto con animali selvaggi. Luoghi comuni a migliaia di visitatori muniti di teleobiettivi, cacciatori di emozioni e di belle immagini pronti ad immergersi in un mondo fiabesco, senza tempo, rinchiusi come in gabbia negli appositi fuoristrada ad osservare gli animali liberi nei loro territori.
L’Africa è una terra assolutamente affascinante per chiunque le si avvicini, colma di eccessi e di contrasti, di ambienti vulcanici in continua evoluzione, di terreni argillosi faticosamente scavati dai fiumi. Il verde cupo della foresta equatoriale, con le acque cristalline dei torrenti inviolati, si sovrappone ai gialli della savana; aspetti improvvisi di terra piatta, monotona e in certi momenti addirittura incolore, esplodono poi in catene montuose, in pareti di roccia verticali, in vaste aree ricoperte di ghiaccio. E` un complesso di sfaccettature, un’amalgama di selvaggia convivenza di paesaggi, di animali e di genti. Una convivenza alle volte violenta, sanguinosa e spietata, ma che sempre ha attratto e affascinato viaggiatori e studiosi.
Fino al secolo scorso l’Africa orientale era un luogo mistico, dove le popolazioni indigene veneravano divinità e spiriti superiori che vivevano in luoghi alti, irraggiungibili, identificati come “luogo di candore”, “il bianco irraggiungibile”. Espressioni semplici ma che danno una giusta importanza e dimensione. Fu l’avvento dell’uomo bianco a sconvolgere e rendere importante quello che per i locali poteva essere irrilevante o, meglio ancora, di nessun beneficio. Il bianco irragiungibile, così lontano dalle menti indigene, diventò una meta ambita, una conquista, e l’uomo “Buana” era pronto a pagare portatori e guide per conquistare e profanare quei luoghi chiamati montagne. Come scaturiti dalla profondità del tempo i tre grandi d’Africa, Kilimanjaro, Kenya e Ruwenzori, s’innalzano maestosi nel mondo rarefatto dei 5.000 metri, disegnando un triangolo inconsueto, magnifico, un paradiso naturalistico di rara bellezza.
Tutto si muove attorno all’enorme bacino del Lago Victoria, verdi e freschi altipiani spaccati dalle Rift Valley orientale e occidentale, in un pullulare di vita unica al mondo. Un universo in continuo movimento, che vide il suo inizio nella notte dei tempi. Le migrazioni bibliche degli gnu ne sono l’esempio plasmato: milioni di gambe e corna che si muovono in turbinii di polvere, di paura, di vita e di morte. Tutto è così vero, ma soprattutto leale, da perdonare la ferocia del re leone, del leopardo delle nevi, del crudele coccodrillo che, calmo e irriducibile, aspetta la vittima nei pochi punti di abbeveraggio delle sconfinate pianure, mentre, alta nel cielo, un’altra migrazione ha il suo corso: il volo rosa dei fenicotteri.
In questi anfratti l’occhio umano ha paura, o forse vergogna, intuisce il male provocato al genere animale e vegetale. Il triangolo della vita, varia e complessa! Dai freddi ghiacciai delle montagne alle pianure desertiche, afose; dai pantani di acqua stagnante, puzzolente e malata, alle fresche, spumeggianti acque cristalline che scendono dai conoidi laviferi. Un triangolo di sinergie tribali, di lotte cruente dove la mano invisibile dell’uomo bianco, regala strazianti reportage. Intanto la vita continua.
La storia dei tre grandi d’Africa si assomiglia. Kenya e Kilimanjaro furono scoperti e resi noti al mondo europeo, a distanza di un anno l’uno dall’altro, da due missionari di nazionalità tedesca. Correva l’anno 1848-49 e la notizia sconvolse gli animi dei geografi, soprattutto in Inghilterra, che contestarono la possibile esistenza di montagne coperte di neve, nell’Africa equatoriale. La Società Geografica Francese riconobbe, invece, ai due missionari l’importante scoperta. L’anno successivo il Kilimanjaro veniva preso d’assalto dalla prima spedizione, ma fu solo nel 1889 che Hans Meyer ne violò la cima. Per il Kenya invece si dovettero aspettare 34 anni per la conferma della reale esistenza, e solamente 4 anni più tardi nel 1887 due ungheresi, il conte Samuel Teleki de Szek e Ludwig von Hoehnel, furono i primi a calpestarne la base giungendo nella zona alpina d’altitudine.
La storia del vicino Monte Ruwenzori è molto più complessa. Le sue origini vanno ricercate in tempi remoti, nella stretta complicità con le acque limacciose del fiume Nilo. Gli Egizi pensavano al loro fiume in modo romantico e religioso, credendo che le acque fossero originate dalle lacrime della dea Iside. Antichi scritti di Claudio Tolomeo descrivono montagne lontane di nevi perenni, che alimentavano il corso del Nilo; ci fu chi le chiamò, le Montagne della Luna. Nel 1864 il primo europeo avvistò la catena del Ruwenzori. Seguirono vari tentativi di avvicinamento: zoologi, missionari geologi, botanici provarono la scalata. Nel 1905 una spedizione svizzera effettuò il primo serio tentativo. Un anno dopo l’instancabile, irriducibile Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, già noto per le sue imprese artiche con la salita della seconda montagna dello stato canadese, il Monte Sant’Elia, conquistò le cime più importanti del gruppo del Ruwenzori. Faceva parte della spedizione anche un fotografo d’eccezione: Vittorio Sella.
I tre grandi d’Africa: un insieme di racconti alimentati dai fuochi dei campi nativi, leggende sospinte dai venti della savana e tramandate di padre in figlio. Racconti fiabeschi, come fiabesco è il luogo su cui si ergono, splendente come le candide nevi che dolcemente degradano nella calura. Quanto ancora si potrà chiamare “bianco irraggiungibile”? Per quanto tempo ancora calpesteremo i ghiacciai d’Africa, prima che i buchi dell’ozono o l’effetto serra li facciano sparire?
Ma l’Africa che più si conosce è quella turistica, soprattutto quella degli itinerari organizzati: safari, trekking che dir si voglia, tutto è a portata di “turista”. Più si spende e più si ottiene! Avvicinarsi di più al Re Leone è cosa da poco, qualche scellino e il gioco è fatto. Cosa importa se all’animale la cosa disturba; l’importante è portare a casa un “avventuroso” fotogramma da mostrare agli amici. In montagna chi vuole scalare la via alpinistica più bella deve pagare di più e per le tasche dei sempre poveri alpinisti solitari si prospetta una crisi finanziaria.
È vero, la giostra del turismo porta denaro e lavoro, ma chi è il manovratore? Gli autoctoni sono pochi e, dall’esperienza di chi scrive, completamente allo sbaraglio, ridotti a sfruttare il più possibile chi gli capita sotto tiro. Purtroppo, per questo motivo, vengono evitati e così sfuma quel contatto appena appena più umano, più sincero che rimane al di fuori della macchina turistica.
Sulle due montagne più frequentate, il Kilimanjaro e il Kenya, le organizzazioni, locali e non, sono molto attive offrendo rifugi e chalet confortevoli ed ospitali. Materassi e cuscini allietano le fresche notti, al chiarore delle luci alimentate dai pannelli solari. Le guide, i portatori, o per meglio dire i tutto fare, preparano succulenti piatti, dagli spaghetti alla carne alla verdura cotta, cambiando il menu di volta in volta per mettere a proprio agio alpinisti o trekkers che siano. Il via vai di portatori impressiona, sembrano formiche instancabili in continuo movimento per approvvigionare i rifugi con ogni tipo di genere alimentare. Tutto viene trasportato sulle spalle o sulla testa in perfetto equilibrio, come esperti circensi.
Questi due grandi d’Africa hanno un fascino tutto particolare: il candore dei ghiacci perenni spicca già da lontano, quando si intravedono fra i rami degli imponenti baobab. Man mano che ci si avvicina esplodono nel prepotente verde cupo della foresta pluviale.
Monte Kenya.
La montagna tecnicamente più alpinistica dell’Africa sorge proprio sulla linea dell’Equatore. Il tetto del Kenya è formato da due picchi pressoché uguali, anche la differenza di quota è minima: 5.199 m la punta Batian e 5.188 m la punta Nelion. La cima Lenana, leggermente più spostata e decisamente più accessibile, svetta a quota 4985 m.
Il Monte Kenya è compreso nell’area protetta del Parco Nazionale del Monte Kenya, recentemente ampliata dai 580 kmq agli attuali 715 kmq e promossa dall’Unesco “Parco della biosfera terrestre”; l’altitudine va da 2000 a 5199 metri. L’ambiente del parco, molto variegato, comprende un pò di tutto, dalle foreste pluviali ai tratti di deserti di alta quota, dalla tundra afro-alpina con numerosi laghetti ai caratteristici seneci e lobelie giganti.
Nella foresta non è raro incontrare bufali ed elefanti di foresta, antilopi, rinoceronti neri, scimmie ...

Il trekking
Dopo 177 km da Nairobi, la capitale del Kenya, si incontra il piccolo centro di Naro Moru collocato a 1980 metri di quota. L’ambiente da far-west è movimentato da 550 anime, l’ufficio postale e un distributore. A Naro Moru si incrocia la strada che conduce alla porta del parco nazionale del Monte Kenya, da dove parte la via più veloce e sicuramente frequentata per raggiungere la cima Lenana. Lasciata la strada A2, che prosegue per Nanyuki, il più grosso centro dei dintorni, si prosegue sulla pista di terra battuta seguendo le indicazioni per il monte Kenya. La polverosa strada passa nei pressi di una missione italiana, per enormi fattorie e coltivazioni. Dopo alcuni chilometri, alla stazione di polizia, ottenuto e pagato il permesso di entrata, la carrozzabile incomincia a salire fra la fitta vegetazione. Incontri con famiglie di scimmie, che saltano con estrema facilità da un ramo all’altro, allietano la salita di 9 chilometri, fino ai 3050 m del primo campo, una stazione meteorologica controllata da un guardia parco. Qui il Naro Moru River Lodge ha costruito delle capanne, che vengono affittate sul luogo da un responsabile. Le altre possibilità per dormire sono il campeggio oppure il rifugio dei portatori quando non è occupato.
Il secondo giorno l’ascensione prosegue dapprima sulla carrozzabile, fino alla stazione di polizia, poi lungo il sentiero, che si inoltra fino al limite della foresta, a circa 3200 m. È qui che incomincia il “Vertical Bog” (la palude verticale), forse il tratto più impegnativo dell’intero trekking, soprattutto dopo intense piogge. Oltrepassata la micidiale palude, il crinale regala l’indimenticabile vista sulla valle di Teleki e su tutto il massiccio del monte Kenya. Il percorso attraversa ora a mezza costa raggiungendo il verde, dolce fondovalle che conduce al campo Mackinder’s, all’ombra delle verticali pareti del Monte Kenya. Qui il rifugio, costruito nel 1984 dal Naro Moru River Lodge a 4160 m, può ospitare fino a 80 persone. All’interno si trovano stanze con letti e materassi e un’ampia sala adibita a cucina. Poco più avanti, proseguendo per il sentiero, il piccolo rifugio per portatori, guide e guardia parco. L’itinerario si fa ora più alpinistico risalendo tutta la morena; poi a destra del grande ghiacciaio Lewis si raggiungono il crinale e la distesa sabbiosa, dove a 4790 m aspetta l’Austrian Hut. Anche questo rifugio è ben strutturato ed accoglie fino a 30 persone in tre diverse stanze offrendo la possibilità di cucinare.
Le verticali pareti del Nelion e della punta Batian accompagnano l’ultimo tratto della facile ascensione alla cima Lenana (4985 m).
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Kilimanjaro
Un quinto del ghiaccio presente in Africa si trova sulla montagna più celebre del continente, il Kilimanjaro, quella che più di ogni altra viene presa d’assalto da trekkers e alpinisti. A differenza del massiccio del Monte Kenya con pareti di roccia verticali il Kilimanjaro è più discreto, misurato, crea inconsuete visioni lunari. Il suo carisma è del tutto particolare. Saranno i suoi 5895 m, i tavolati sabbiosi, secchi e desertici d’alta quota, le comodità dei rifugi, la squisitezza delle cene preparate dai portatori, sarà un po' di tutto questo ed altro ancora a creare una singolare attrazione su di lui.
Dal 1973 il Kilimanjaro è Parco nazionale e comprende un’area di 756 kmq. Il massiccio è un enorme vulcano con tre bocche principali, Kibo, Shira e Mawenzi.
Come nella foresta pluviale del Monte Kenya anche in quella del Kilimanjaro vivono grandi mammiferi quali bufali ed elefanti, difficilissimi da vedere. Ma la fitta foresta, invasa da lunghe barbe di licheni (muschio spagnolo), è anche un pullulare di uccelli, alcuni fra i più rari, di scimmie e di un’incredibile varietà di piante.

Il trekking
La via di Marangu, il percorso più facile e più sicuro per calpestare i 5895 m del tetto d’Africa, è la via intrapresa dai turisti, anche perché offre molti rifugi lungo tutta la salita.
Raggiunti i 1980 m dell’ingresso del parco con qualsiasi mezzo di trasporto e compilate le dovute pratiche d’accesso, inizia l’ascensione. La comoda carrozzabile, che si intrufola nel mezzo della fitta vegetazione, guida nel primo tratto del cammino; con occhio attento si possono scorgere nella densissima foresta pluviale, che occupa la fascia dai 1800 ai 3000 m, moltissime varietà di uccelli, scimmie e quant’altro.
Dopo 3-5 ore di cammino ecco il primo rifugio, il Mandara Hut a 2700 m. In confortevoli edifici costruiti in legno trovano sistemazione fino a 200 persone; c’è il lusso di acqua corrente e docce. In questi luoghi di riposo per i trekkers c’è un perenne fervore, i portatori si trasformano in cuochi e camerieri lavorando fino a notte fonda. Preparano la cena con primo, secondo e frutta, poi il pranzo al sacco per il giorno successivo. Ognuno lavora per il proprio gruppo di turisti. Verso le 5 del mattino incominciano i preparativi per la colazione. Un continuo fermento che dura quasi 24 ore. Il secondo giorno il trasferimento all’Horombo Hut prevede 4-7 ore di cammino. A 3000 m la foresta lascia il posto alla brughiera che si apre in sconfinati orizzonti. Per la prima volta si intravedono i ghiacciai del Kibo ed i pinnacoli di roccia del Mawenzi. L’andamento del sentiero è di estrema tranquillità e lascia godere il paesaggio, interrotto dai seneci giganti del Kilimanjaro che s’innalzano fino a toccare i 4-5 metri. Piccoli topolini scartano fra i ciuffi d’erba coriacea, che colonizza tutta quest’area. Colate di lava scura scendono dalle pendici del Mawenzi contrastando il verde della steppa montana. Tutto è così particolare e piacevole senza brusche spaccature ambientali, un insieme di equilibri armoniosi, una serenità interiore avvertita dall’occhio e trasferita alla mente.
Horombo Hut collocato a 3720 m su di un pianoro che rompe la monotonia dell’enorme crinale. Gli edifici sono la fotocopia di quelli del Mandara Hut, il paesaggio però è totalmente cambiato. Si incomincia ad avvertire la carenza di ossigeno, il fisico è più affaticato. Al di sopra dei 4000 m i vegetali che riescono a sopravvivere sono pochi. Del tutto particolare è un tipo di muschio a forma sferica, che ruzzola qua e là trasportato dal vento.
La partenza del terzo giorno è molto più lenta. Il fisico si deve abituare alla quota, la fretta può compromettere seriamente il successo dell’ascensione. “Last Water”, ultima acqua! Il nome del luogo è ben chiaro: fate il pieno alle borracce. Un tratto di salita porta a un crinale dove l’ambiente muta nettamente. Ha inizio il deserto di alta quota, qui non piove mai, l’aria è asciutta per la mancanza di acqua in superficie. Un luogo totalmente lunare dove l’ossigeno presente è ridotto a metà di quello presente a livello del mare. È qui che incontriamo l’ultimo rifugio prima di dare l’assalto al punto più alto dell’Africa. Il Kibo Hut si trova a 4700 m di quota; la struttura che ospita i trekkers è unica, con alcune camere a disposizione di quelle poche persone che riescono a dormire e una grande stanza da pranzo che completa il tutto. È preferibile partire verso mezzanotte-l’una, tanto non si dorme! È possibile in tal modo sfruttare al meglio la giornata.
Alle prime ore del quarto giorno, con la mente che vaga fra allucinazioni, sonno, freddo e stanchezza, i piedi muovono i primi passi verso la corona del cratere. Appena poche centinaia di metri e la fatica è pronta a farsi sentire; la quota e il terriccio lavico che frana di continuo... è un martirio. Il blu terso del cielo africano viene rotto dai caldi raggi del sole a G[h]illman’s Point (5680 m.), al di là si apre la vastità del cratere. Dopo due ore circa, attraverso la sella Johannes, si raggiunge la Uhuru Peak (5895 m.), il punto più alto del continente nero.


Parco nazionale di Hell’s Gate.
Non fatevi impressionare dal nome di questo parco, che tradotto in italiano significa “Porta dell’inferno”; per un arrampicatore potrebbe mutarsi in qualcosa come “l’apriporta del Kenya all’arrampicata sportiva”.
Distante circa 100 chilometri da Nairobi, Hell’s Gate è un grandioso canyon, profondo e ramificato. Le placche di basalto che lo costituiscono, a volte strapiombanti, a volte appoggiate, partono dal piatto tavolato erboso che forma la base, dove antilopi, silvicapre, giraffe, zebre, bufali, brucano in tutta tranquillità. Deltutto singolare e straordinario per chi vive al di fuori del continente nero è trovarsi ad arrampicare su verticali fessure, mentre alla base vi è un continuo, variegato movimento di mammiferi. Poco più in la, verso il fondo del canyon, potenti geyser sparano getti d’acqua di origine vulcanica formando enormi nuvole di vapore bianco.
La nascita di questo parco nel 1984 si deve alla salvaguardia di alcuni rapaci come: il gipeto barbuto, l’avvoltoio europeo ed altri. Il Parco si estende su un territorio di 68 kmq, poco più a sud del lago Naivasha. Non è necessaria la macchina per andare all’attacco delle vie; ci si può incamminare a piedi fra gli occhi attenti delle giraffe, che controllano i loro piccoli incuriositi, e poi fino ad ora - mi hanno detto i park rangers- mai ghepardi o leopardi hanno attaccato umani.
Appena si entra si nota subito lo spuntone di roccia alto 35 metri, “Fischer’s Tower”, dove vie dal 4a al 6a/b portano all’esile cima, da dove si ha una stupenda vista.
Tutti i tiri di corda presenti nella zona sono attrezzati per le corde doppie. Non esistono le protezioni intermedie, quindi ci si deve proteggere con dadi o friends. Per qualsiasi informazione sui luoghi di arrampicata rivolgersi all’entrata e chiedere di Francis O. Edage, il guardia parco che vive e arrampica all’interno del parco.
È sicuramente il luogo adatto per trascorrere alcune giornate in tutta tranquillità, magari dopo l’ascensione al Monte Kenya.

 

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